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Dal diario di un viaggiatore in India

23 Aprile 2024

CENA A SORPRESA A JAIPUR

La giornata nella città rosa termina con cena a sorpresa; come in altra occasione siamo ospiti nella dimora di un maharaja ora adibita a ristorante.
L’ingresso si prolunga per un centinaio di metri, con fontane e aiuole fiorite, un suonatore di tamtamf (tamburo oblungo), due danzatrici in costume tradizionale, altre che ripongono al collo la rituale corona fiorita; e non finisce qui… ecco l’elefante bardato con barrito di benvenuto, il mangiatore di fuoco, il sacerdote indù che, davanti all’altare decorato con stoffe variopinte, composizioni floreali e immagini sacre, augura lunga e felice esistenza pregando Lakshmi, dea della ricchezza, e Sarasvati, dea della saggezza mogli di Vishnu il dio della protezione o preservazione; ricchezza e saggezza sono spesso conflittuali e non a caso le mogli di Vishnu, recita la “teologia” induista, si detestavano.
Si entra nel grande salone, con soffitto alto non meno di cinque metri, pitture floreali e foto dei padroni di casa o dipinti degli antenati.
La cena è allietata dall’esibizione di musici e danzatrici e, sorpresa nella sorpresa, viene annunciata la visita del maharaja di Diggi e consorte, proprietari di questa che è soltanto una delle loro residenze non più abitate.
La moglie indossa indumenti tradizionali mentre il maharaja: uomo alto, con folti baffi, fini lineamenti, portamento aristocratico, fluente parlata inglese, sfoggia elegante abito da sera occidentale; intrattiene i convitati dialogando con il nostro bramino-guida traduttore simultaneo, saluta con stretta di mano ognuno dei presenti e, come nelle favole… così mi piace immaginarlo… svanisce nel buio.
Diggi è una città a settanta chilometri da Jaipur; il maharaja afferma che, nei secoli scorsi, era capitale di un regno governato dai suoi antenati ed esteso dall’ovest indiano a vaste terre dell’odierno Afghanistan.

Il trattenimento chiude il sipario con spettacolari fuochi d’artificio e… ed il menu? Il ricercato, pepato, speziato, menu indiano già saggiato in alberghi e ristoranti, ha l’inevitabile pecca di devastare i nostri raffinati palati italiani però… che serata indimenticabile!

 

RITI CERIMONIALI A VARANASI

Ci apprestiamo al terzo volo aereo che ci porterà, noi realmente il lettore con la fantasia, a Benares o Varanasi per gli indiani; la città santa dell’induismo […]
Il tragitto per giungere al fiume, nella calca indescrivibile di pedoni, auto, vacche e moto, richiede per un lungo tratto l’ausilio del risciò; osservando l’uomo pedalare con fatica per superare lievi salite o strada dissestata, scenderei a spingere per aiutarlo ma non sarebbe forma di rispetto gradita. Segue un percorso simile per confusione e durata, da percorrere pedibus calcantibus cioè con le proprie gambe, finché spunta in lontananza il fiume.
In questa stagione il livello è molto basso; l’acqua torbida, scorre sonnolenta, s’intravvedono isole emergere fra le due sponde lontane e la carcassa di una vacca in decomposizione; dell’animale sacro anche la carcassa penso sia venerata.
Durante la stagione dei monsoni il livello dell’acqua può aumentare di dieci metri sommergendo tutto il “palcoscenico” che tra poco apparirà.
È sera inoltrata ed all’imbarcadero attende una vetusta barca fra altre decine; il pilota avrà vent’anni, l’aiuto un ragazzino di dodici/tredici, il motore con accensione manuale simile al trattore di epoca mussoliniana. Altri adolescenti vendono il lumino acceso ed incastonato ad un fiore; posato sull’acqua lo vedo allontanarsi con mille altri creando l’illusione evanescente del sogno.
La barca si discosta dalla sponda e naviga poco distante proponendo le prime immagini della riva con edifici accastellati e l’enorme spiazzo scalinato dove si svolgerà la cerimonia; ai lati i due crematori con le pire infuocate.
Ogni sera all’imbrunire e poi al buio, si celebra la grandiosa cerimonia per onorare e venerare la “Madre Gange”.
I documentari visti sinora non possono rendere a dovere quanto il coinvolgimento personale posto innanzi al mistero della fede racchiuso nella celebrazione.
Per intendersi…la fede, tolto il fanatismo, è mistero in qualsivoglia religione.
Numerosi sacerdoti officiano la cerimonia.
Sono ventenni o poco più, hanno la fronte dipinta di bianco che simboleggia purezza, pulizia, pace, conoscenza; indossano una maglia rossa, il colore del buon auspicio per matrimoni, nascite, feste, cerimonie.
Una stola di stoffa bianca scende dalla spalla, avvolge i fianchi, si distende a sottana increspata ed ondulata fino ai piedi scalzi; salmodiano, aspergono, incensano, agitano campanelli e fuochi sacri, il canto monocorde accompagna la liturgia.
Ritti, sul piazzale e sui gradini sovrastanti, decine di migliaia di fedeli accalcati seguono il rito rimodulando il canto, alzando le braccia al cielo in segno di devozione, accennando passi in cerchio simili a danza.
Mi affascina l’esotismo di questa religione sconosciuta qui rappresentato in modo spettacolare e lo sguardo non trascura simbolismi accomunanti, pur nelle differenti esegesi e culture, altre religiosità incluso il credo cristiano: i paramenti liturgici pur se dissimili, l’acqua, l’incenso, il fuoco, i campanelli, il canto, le candele, i fiori, le mani giunte sul petto, le suppliche. […]
Amo fantasticare che perfino la luna partecipi alla solennità del momento; insolitamente vicina, grande, rossiccia, diffonde tenue luce opaca spegnendosi poco a poco all’orizzonte oltre la “Madre Gange”.
Quando il rito termina, preso com’ero non saprei quanto è durato, mi guardo intorno e noto, perplesso, l’assembramento di imbarcazioni a centinaia. Come ne usciremo? Chiedo a me stesso. Un dubbio presto tacitato; i barcaioli accendono i motori, il fumo di scarico avvolge la scena e, spingi tu che spingo io, l’ammassamento si dissolve in un batter di ciglia e l’asmatico natante ci riporta sani e salvi all’imbarcadero.

Il mattino successivo, alle cinque, dopo il solito percorso occupato qua e là da dormienti che vi hanno trascorso la fredda notte, ecco nuovamente la “Madre Gange” ancora avvolta nella semioscurità.
Il rito serale è di adorazione e ringraziamento, quello mattutino è preghiera di aiuto e misericordia.
Centinaia di ragazzi allievi sacerdoti, sono schierati sugli scalini a ridosso del fiume, indossano una tonaca rossa, salmodiano in coro con girotondi propiziatori. Un solitario sacerdote incensa accompagnato dal suono di campanelli.
Dalle due di notte proseguono le abluzioni nella sacra acqua che, ripensando alla mucca in decomposizione, dev’essere talmente inquinata da giustificare il rifiuto d’immergervi anche un solo dito.
Gli indiani di religione indù, invece, la bevono, lavano di denti con un pezzo di legno comprato per strada, s’immergono lavando tutto il corpo dalla testa ai piedi, nessuno escluso, sia uomo, donna, bambino.
A mattina avanzata la barca compie la medesima funzione della sera precedente con avvicinamento, per quanto possibile, ai crematori che la luce del giorno rende più visibili.
Le vacche, indifferenti al dolente consesso, pascolano anche nei crematori brucando i fiori che avvolgevano i defunti.
I fuochi divampano, su una pira sta per essere deposta la salma avvolta con tunica lucente, il primogenito distinguibile per la testa rasata, accenderà il fuoco; su un’altra un corpo avvolto dalle fiamme; la carne sarà cenere e l’anima? Il fulcro dell’induismo è il karma positivo quale dovere personale e sociale per vivere bene in questa vita e nella prossima reincarnata dall’anima.
Come già accennato, non esistono tombe indù, la religione prevede la cremazione e le ceneri sparse nei fiumi sacri.

 

Tratto dal racconto “INDIA : FRAMMENTI” – per gentile concessione gratuita del Sig. Gianfranco Pasquali che si autodefinisce “scrittore per caso”.

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