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Myanmar, in punta di piedi fra tradizioni sorprendenti

19 Aprile 2024

Scrivere sul Myanmar significa riaprire una ferita sempre aperta, perché ancora oggi questo martoriato paese del sud-est asiatico fatica a trovare la giusta strada per la libertà.

Ricordi ed emozioni però rimangono indelebili e non si scoloriscono con il passare del tempo, anzi ritornano a volte inaspettati con i dettagli più intimi.

Abbiamo scelto una brava guida indipendente per accompagnarci durante il viaggio dedicando alcuni giorni per visitare il lago Inle immerso in un ecosistema unico al mondo, ricco di bellezze naturali e antiche tradizioni popolari.

Si naviga su basse e piatte imbarcazioni di legno e si incontrano i pescatori Intha chiamati anche Figli dell’Acqua che utilizzano particolari nasse coniche che vengono immerse in acqua dall’alto per catturare i numerosi pesci perlopiù carpe presenti nelle basse acque del lago. I pescatori hanno imparato a remare con una gamba, sviluppando in questo modo una tecnica particolarissima per governare la barca in modo da avere le mani libere per poter pescare con questo strano tipo di nasse.

Sono più di 10 mila persone che vivono su palafitte e coltivano orti galleggianti dove i bambini giocano immersi nei giacinti d’acqua fioriti mentre le donne lavorano ai telai e tessono coloratissimi fili di seta.

Abitano nelle long house che ospitano diverse famiglie, costruite su alti pali di legno perché durante la stagione delle piogge il livello del lago può salire di oltre un metro e mezzo, le pareti sono intrecciate di bambù mentre i tetti sono in lamiera.

Abbiamo fatto in modo di arrivare giusto in tempo per assistere al Festival del Lago, una cerimonia molto suggestiva che si svolge ogni anno con numerose barche bardate a festa che ripercorrono la storia di un’antica leggenda :  durante una processione, mentre  cinque statue del Buddha venivano portate nei villaggi per essere venerate, una barca si rovesciò perdendo una statua che, nello sconforto generale, non venne più ritrovata. Riportando le altre quattro nella grande pagoda Phaung Daw Oo dove venivano conservate durante il resto dell’anno, si scoprì che la statua perduta si trovava già al suo posto, sull’altare principale.

Da allora nacque questo festival che ogni anno porta le statue in giro sul lago scortate dalle imbarcazioni che ospitano fino a 40 rematori Intha che si sfidano in una regata molto pittoresca, gareggiando per arrivare ad essere i primi remando tutti assieme con una gamba in una scenografica danza sull’acqua.

Entusiasti per aver assistito a questa particolare manifestazione, decidiamo di raggiungere Kakku nello stato di Shan dove la nostra guida ci racconta che anche qui ogni anno si svolge un festival chiamato Paya Pwe, che si tiene il primo giorno di luna piena del mese di tabaung (marzo) quando arrivano moltissimi pellegrini con i loro carri colorati trainati dagli animali bardati a festa provenienti da tutti i villaggi circostanti.

Lasciamo il lago Inle percorrendo una lunga strada che attraversa le colline e dopo un paio d’ore arriviamo a Taunggyi la grande montagna capoluogo dello stato Shan, una tappa obbligata perché qui bisogna ottenere i permessi necessari per entrare in questi territori e ingaggiare una guida “governativa” per farsi accompagnare. Da qui in avanti entriamo nella regione tibeto-birmana dove vive la popolazione di etnia Pa-O che parla uno dei tanti dialetti in uso dalle numerose minoranze etniche del Myanmar. Le donne sono riconoscibili per i turbanti colorati che portano annodati sulla testa e quando lavorano chinate nelle risaie e nei campi coltivati sembrano grandi fiori che punteggiano il paesaggio in lontananza.

All’ingresso del sito bisogna togliersi le scarpe ed entrare scalzi nell’area sacra che ospita più di due mila stupa. Kakku ha origini antichissime che risalgono al quarto secolo prima di Cristo, quando venne fondata per ospitare una reliquia del Buddha.

Il lungo viale d’ingresso è costeggiato da una teoria di stupa bianchi e rosa che sembra non finire mai, ognuno diverso dall’altro, alti, bassi, esili, massicci, semplici e spogli oppure riccamente decorati da campanelli finemente cesellati, ognuno con la sua storia. Passeggiando fra il labirinto intricato in mezzo agli stupa ci si addentra ad ogni passo in un mistero sempre più profondo immersi in una melodia creata dal vento che sembra produrre una nota diversa da ogni campanello che si muove fra i bagliori dei riflessi del sole.

I fedeli inginocchiati offrono fiori di loto, cesti di frutta e foglie di betel e accendono candele e bastoncini d’incenso, le offerte sono rivolte ad un grande maiale dorato che si trova in una teca sommerso da monetine e banconote. La nostra guida si accorge del nostro stupore e ci spiega che questo sacro altare si chiama Wat Ku che significa rendere grazia al maiale in memoria di un antica leggenda birmana che narra la sua protezione nei confronti di ladri e malfattori.

Lasciando il sito attraversiamo un’immensa pianura dove i campi verdi delle risaie arrivano fino ai piedi dei monti sfocandosi in lontananza. Lungo la strada incontriamo numerosi mercatini locali di frutta e verdura senza banchi in quanto la merce messa in vendita viene appoggiata direttamente per terra su pezzi di plastica o tela colorata. La nostra guida decide di fermarsi per farci visitare un piccolo villaggio dove le case sono rialzate su alti pali di legno come fossero palafitte seppur costruite sulla terraferma ma in questo modo mettono a riparo i raccolti e le derrate alimentari  conservate durante l’anno, sia dall’acqua durante la stagione delle piogge che dagli animali selvatici. Sono povere baracche di legno con le stuoie intrecciate alle pareti ma ognuna con il proprio orto-giardino bordato dalla siepe che  separa le une dalle altre rendendo l’aspetto generale dell’intero villaggio ordinato e dignitoso. Un’anziana signora è seduta sulla soglia di casa sua, anzi ci accorgiamo che non è seduta su nessuno sgabello ma accucciata sui talloni con una flessibilità che non siamo abituati a vedere nemmeno in persone molto più giovani, la nostra guida Pa-O parla lo stesso suo dialetto e si ferma a salutarla, lei ci invita ad entrare e restiamo molto colpiti dalla sua cordialità e quasi imbarazzati a raccogliere l’invito ma il suo grande sorriso senza denti ci apre il cuore oltre alla porta di casa, togliamo le scarpe e ci sediamo per terra su una grande stuoia pulita. La nostra guida ci traduce i suoi racconti che risalgono alla sua giovinezza e alla sua numerosa famiglia con tanti figli e nipoti. Ringraziamo per l’accoglienza e al momento dei saluti ci regala un mazzetto con teste d’aglio di dimensioni molto piccole tipico di questa zona, restiamo profondamente colpiti da questo semplice gesto e chiediamo alla guida un modo per ricambiare, ci chiede solo una fotografia che promettiamo di fargliela avere in qualche modo.

Nei giorni successivi visitando un orfanotrofio nei pressi di Mandalay dove portiamo medicine, giocattoli e materiale didattico che abbiamo raccolto prima di partire lasciamo anche il mazzo con l’aglio ricevuto in regalo raccontando la storia e l’incontro con l’anziana signora al monaco che ci riceve e ci conferma che nessuna piccola offerta viene mai rifiutata, in quanto nella loro cultura e religione buddista rappresenta un modo per acquisire merito per la felicità futura. I maschi hanno la tunica color rosso porpora mentre le femmine sono vestite di rosa o giallo, tutti portano un telo piegato sulla testa rasata dove appoggiano un piatto per raccogliere il riso dalle elemosine. Praticamente tutte le scuole dei villaggi rurali sono anche orfanotrofi dove risiedono moltissimi bambini e i monaci sono gli insegnanti che se ne occupano. Vivono grazie alla sussistenza dei laici e non possono possedere più di tre tuniche oltre ad un piatto o una ciotola per le elemosine, una tazza per mangiare e bere, un ombrello per ripararsi dalla pioggia e un rasoio per radersi. Oltre agli orfani ci sono anche tanti monaci più o meno giovani che hanno famiglia e molti provengono anche da quelle più agiate in quanto ogni buon birmano deve fare almeno un paio di periodi di noviziato prima di mettere su famiglia. Questi periodi che possono durare da un paio di settimane ad alcuni mesi rappresentano un motivo di grande orgoglio e chi ha la possibilità offre generose elemosine, ecco perché si possono incontrare giovani monaci fuori dai monasteri impegnati in una conversazione telefonica al cellulare piuttosto che intenti a scrivere al computer portatile. Anche da adulti gli uomini birmani dovranno tornare almeno un’altra volta nella vita a servire in un monastero portando le proprie capacità ed esperienze. Bisogna trovare sempre modo di riflettere e trarre qualche vantaggio da ogni esperienza di viaggio e il Myanmar offre numerose occasioni per farlo.

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